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Tarendol

Di René Barjavel

Informazioni

Autore: René Barjavel

Genere: narrativa

Casa Editrice: L'Orma editore

Pubblicazione: 1946

Prezzo: 25.00

Pagine: 382


“Per la maggior parte degli esseri umani la morte è l’ultima battaglia di una vita di lotte. Spinti dall’abitudine, cercano di resisterle come ha resistito fino al suo arrivo. Come hanno vissuto, così muoiono” scrive René Barjavel. Una resistenza che si insinua in ogni scelta e in ogni contesto. Perché l’essere umano si accanisce così tanto nel resistere alle immani forze dell’avvenire e dei suoi eventi? E che peso ha la sopravvivenza, del corpo e dell’anima, di ognuno di loro, di noi?


Ne dà un ritratto vivido e dettagliato René Barjavel con il suo romanzo Tarendol. Scritto nel 1946, al tramonto della seconda grande guerra che aveva lasciato solo orrori e miseria, racconta una storia d’amore.


Siamo nel 1943. Jean Tarendol, giovane orfano di padre, vive la sua giovinezza nel pieno di questi travolgenti eventi. Tutto comincia nello studentato a Milon, Francia. Tra una lezione e l’altra si ritrova di fronte a qualcosa che cambierà per sempre il corso della sua vita: una ragazza. Non una fanciulla qualsiasi, ma Marie, la figlia della direttrice dell’istituto femminile. Subito Tarendol cerca di avvicinarsi a lei, e nonostante non sia così facile, resiste! Resiste e resiste ancora, senza perdere mai le speranze. Ora i suoi sogni sono due: sposare Marie e diventare, un giorno, architetto.


Stimolato da questi due fattori, come ogni giovane che si rispetti, Tarendol dovrà fare i conti con qualcosa più grande di lui: la guerra. Come i libri di storia, e non solo, insegnano, la seconda guerra mondiale, assieme all’occupazione nazista, aveva distrutto ogni cosa, spezzato vite, invalidato i sentimenti e annientato ogni sogno, ogni spensieratezza. Tutti i giovani si ritrovarono a far i conti con questo disastro.


Parigi è la tappa successiva, ma sarà la fessura che gli permetterà di guardare la cruda realtà.


Per un giovane ragazzo, ritrovarsi in una grande città significa accarezzare le ali con cui spiccherà il suo volo. Per Jean, personificazione della gioventù durante il conflitto mondiale, significa ben altro. “Vento malvagio […] tu fai turbinare la tua disperazione di essere vento, per sempre senza legami, io cerco una certezza”. Parole di disperazione che riguardano ogni cosa, dal lavoro all’amore, dallo studio alla sua stessa vita.


Per Tarendol ogni semplice e lecito pensiero da ragazzo appena cresciuto, diventa una lotta. I suoi studi vengono minacciati, il lavoro diventa un privilegio, le amicizie senza fiducia e l’amore impossibile. Un amore che non può che portare gioia e felicità nel cuore, diventa l’espediente per lottare, resistere e sopravvivere: ogni sua mossa ha come fine il ricongiungimento alla sua amata.


Sembra difficile, ad oggi, credere a tutto quello che Barjavel racconta e descrive. Le abitudini, la tecnologia e la facilità con cui si può ottenere quasi tutto, che il ventiduesimo secolo ha portato, sembrano aver cancellato quel mondo, quel tempo che non sono poi così distanti.


Con la sua scrittura curata, dettagliata e minuziosa non lascia margine di dubbio riguardo tutti gli ostacoli che ogni persona, a prescindere dall’età e dal ceto sociale, doveva saltare: la rassegnazione degli anziani, la rabbia degli adulti, la povertà, la tubercolosi anche per i più ricchi, i bombardamenti, l’attesa, le lettere, le ferrovie, i nazisti, i soprusi, gli stupri. E poi ancora, l’amore: gli uomini infedeli e quelli innamorati; le donne facili e quelle che scappavano dalla campana di vetro della propria famiglia; il sesso e le promesse di matrimonio.


L’aspettarsi.


È forse questo l’aspetto più difficile da comprendere in un mondo dove tutto ci rende più vicini, dove i contatti sono immediati: aspettare una lettera, senza nemmeno la sicurezza che questa arrivi; il non sentirsi anche per intere settimane, ma sapere che l’amore è così forte che anche solo il pensiero dell’altra persona dona gioia e fiducia.


Una speranza che spezza il cuore, perché va oltre ogni orrore, “perché la guerra sta finendo”. È forse, quindi, una sopravvivenza? In un passo del romanzo è ben spiegato il concetto di tempo nelle menti di chi ha vissuto quegli anni: esiste un prima e un dopo la guerra, perché quegli anni non contano. Gli anni della guerra servono per pensare al passato e aspettare il futuro.


“Perché la guerra sta finendo”, ma la guerra continua a durare anni e pochi si arrendono, pochissimi. Si continua a lavorare, sudare, costruire (per quanto possibile) e stilare ogni sogno per un futuro che non può non arrivare.


“Della Terra non resterà nulla, né macerie, né fumo. Non resterà nulla degli esseri umani e del loro dominio, né fantasmi, né un nome inciso sulla pietra, né un ricordo di una memoria, né il lento oblio delle sabbie e delle ceneri. Diventeremo un’onda immateriale, un puro fremito trasparente che, staccandosi all’improvviso da questo puntino nell’infinito alla velocità assoluta dell’idea, si inoltrerà crivellato di stelle negli abissi dell’ovunque, alla ricerca di un limite che non esiste”, ma il passato è esistito, la guerra ha davvero fatto quelle vittime, la guerra ha davvero deformato la mentalità dei suoi figli, e dei suoi nipoti e dei suoi pronipoti. La guerra ha davvero distrutto tutto, ogni cosa.


Ma sono stati gli esseri umani che dalle macerie hanno creato un nuovo mondo, hanno continuato ad allattare i propri figli e a guidarli in “una primavera” che tanto stavano aspettando. Sono stati gli esseri umani che hanno sopravvissuto e resistito di fronte al crollo delle proprie case e di fronte ai corpi bianchi e mutilati dei propri cari.

Sono stati i giovani a voler continuare a credere e combattere per il proprio amore; sono state le donne ad attendere i loro amati a casa, con la paura giornaliera che sarebbero potuti saltare in aria… se non fosse già accaduto. Sono state le fronti di ogni uomo che, piene di sudore, hanno lavorato, lavorato e lavorato, giorno e notte, soltanto per racimolare qualche spicciolo e campare la propria famiglia.


E noi tutti siamo figli loro.


Barjavel scrive come se volesse lasciarci un ricordo, una fotografia di quelle giornate, di quegli anni, perché non tralascia nemmeno un piccolo dettaglio, che sia di una veste, di un campo di fiori o di un sentimento. Si scusa per non trovare le parole adatte.

Barjavel ci prende per mano e ci porta tra quelle viuzze, ci fa sentire l’odore delle mitragliatrici, ci fa guardare il biondo dei capelli dei nazisti, ci fa assaporare quel pezzo di formaggio che non tutti potevano permettersi.

Barjavel ci fa pure udire il tono delle loro parole e il suono del silenzio. Descrive la strada, quando di notte era possibile scappare nei propri sogni, e nonostante il coprifuoco, forse era più sicuro del giorno, grazie “alla protezione naturale dell’oscurità”.


Chi oggi legge questo romanzo non può che ringraziare. Decidete voi chi, se Barjavel, se i Tarendol che si sono succeduti o se le Marie che hanno aspettato il proprio marito con amore e speranza. Ma ringraziate: il presente non è altro che il frutto di quel lasso temporale senza tempo di un popolo forte, dell’essere umano e di quanto questo riesce a resistere per sopravvivere… e farci vivere.

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